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Una
delle colture più tradizionali della Valtellina è quella del grano
saraceno (fagopirum esculentum, appartenente alla famiglia delle
poligonacee), la cui fioritura tinge il paesaggio di macchie di un bianco
candido e di sfumature rosate. In realtà sarebbe meglio dire "tingeva",
visto che nell'ultimo ventennio questa produzione ha subito una brusca
interruzione. Diamo quindi in primo luogo un rapido sguardo al passato. A
partire dalla fine del '500 e per quasi tre secoli la coltivazione di
questo nutriente cereale ha giocato un ruolo di primo piano nell'economia
locale, tanto è vero che fu a lungo utilizzato come moneta per il
pagamento dei contratti agrari. La sua importanza è però innanzitutto
legata all'ambito alimentare; questo cereale infatti ha contribuito a
garantire il soddisfacimento del fabbisogno alimentare, soprattutto
durante i difficili periodi di carestia. La coltivazione si titleernava,
nell'arco dell'annata agricola, con l'orzo, la segale e l'avena; questi
venivano seminati in autunno e mietuti in giugno; successivamente, verso
la metà di luglio, aveva luogo sullo stesso campo la semina del saraceno.
Dalla seconda metà del XX secolo però questa attività è andata incontro
ad un forte periodo di crisi. Le cause principali dell'abbandono di
questa cultura risiedono nella faticosa coltivazione sui pendii o sui
terrazzamenti, nella laboriosa e costosa raccolta, e nel cambiamento
delle abitudini alimentari. C'è anche chi sostiene che la colpa sia da
rintracciare nel turismo e nei troppi soldi che hanno allontanato gli
agricoltori dai campi. Questa tendenza ha avuto anche effetti negativi
indiretti. Da questa curiosa poligonacea, le api producevano uno dei
MIELI italiani più rari, dal colore scuro e dall'aroma forte e
caratteristico. Mancando la coltura, le api, ovviamente, non hanno più
potuto produrlo.
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