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Il sentimento del tempo
Ci sono aspetti della vita di un artista
che danno una chiave di lettura della sua opera più di tante altre
interpretazioni estetiche. Parlo dell’amico Giancarlo Vitali, conosciuto
sin da giovane, con quel carattere irrequieto, la voglia di immergersi
nella quotidianità, la disponibilità con tutti, presente ad ogni sagra,
ad ogni ricorrenza della sua Bellano. Quante volte, anche nelle
gelide notti d’inverno - con le stelle chiare e lucenti sulle montagne
innevate e il lago che rumoreggiava inquieto nel molo - lo ritrovavo al
Cantinone, il locale delle piccole ore, dove si beveva liberamente alla
spina e si gustavano i formaggini del Centi? Poi, un bel giorno,
Giancarlo sparì. Letteralmente. Introvabile, se non nel suo studio, ed
anche questo un luogo di difficile accesso. Gli anni scivolarono sui
vetri delle titlee finestre, portandosi via stagioni e illusioni. Lui
sempre chiuso dentro. Ne intuivo il motivo. Bellano stava cambiando:
diveniva più ricca, più moderna, più scintillante, ma perdeva l’atmosfera
di un tempo. Spento il fischio delle filande, l’allegro zoccolare delle
operaie; ammainate le grandi vele dei barconi, anzi spariti tutti i
barconi, coi pescatori, le reti, i navètt…
Tutte visioni che il suo pennello aveva
ripreso, coi volti dei protagonisti, ora beffardi, or tristi, sorpresi,
scavati, brilli. Uno storico del lago, dunque, e per tale motivo i suoi
quadri, col passare del tempo, destinati ad essere sempre più ammirati e
richiesti. Ma, detto questo, è aver detto poco o nulla di Giancarlo
Vitali, è disattendere i giudizi critici di un Testori o di un Alberico
Sala, di uno Sgarbi o di un Vallora, non capire la recente produzione
delle mostre di Palermo, Vicenza, Cremona, Bergamo, Milano, Roma, sino
all’ultimo vivo e sfarzoso ritratto della nobildonna Cesarina Riva Miani
(2 m x 1,20) commissionato dalla Quadreria della Ca’ Granda di Milano.
Un’arte – lo diciamo solo per amor di completezza – che dal ritratto, dal
paesaggio, dalla natura morta, spazia sino al campo della grafica, dalle
acqueforti alle altre tecniche di incisione. Giancarlo ha dilatato sino
allo spasimo una sensazione che noi proviamo solo in rari momenti
d’intensità: Quando ci accorgiamo che un attimo della nostra esistenza si
cristallizza perché irripetibile (talvolta mi sorprendo a ricordare
l’odore di un frutto o la striscia del sole nella penombra di una camera
con dentro la danza del pulviscolo). E’ quanto cattura la rete della
memoria per esaltare un frammento in cui si riflette, per sempre, ciò che
ci rimane del mondo. Lui questo sentimento l’ha vissuto prima che il lago
morisse, prima che tanti personaggi si congedassero dalla scena, anzi lui
stesso moriva infinite volte coi suoi personaggi, coi colori, con gli
angoli segreti del paese. Questa tristezza, anche non sempre palese, è in
tutte le sue opere. La consumata perizia, il cromatismo, la pennellata
veloce, appaion dettagli. Anche quando – con un moto di rivolta – ha
incominciato a dipingere bestie squartate o scuoiate (il famelico e
glorioso bisogno di rossi, per dirla alla Testori), c’era anche lì,
urlata, la tristezza del tempo che è la tematica dei grandi artisti. Fra
i tanti ritratti esemplari troviamo quello dell’allampanato suonator di
tamburo, con le bacchette diligentemente infilate a tracolla, non sai se
reduce da una festa o da una commemorazione, e quello della vecchia
contadina, infagottata nelle sue pretenziose vesti, che guarda con occhi
senza più stupore un mondo non suo. Un senso del precario che è celato
anche nei nostri giorni, quando tutto ciò che ci appare usuale e punto
fermo cui aggrapparci, muterà esso pure. Questo non lo avvertono i più.
Lui, Giancarlo, lo sa. Anzi, lo ha sempre saputo.
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