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Intermezzo
“Sironi? Si, probabilmente lo avevo anche veduto, e ammirato. A Milano
ci venivo, le occasioni c’erano di ammirare, e scoprire. Soffici? Non so,
certamente De Chirico, anche se in qualche modo non lo sopporto.
Intendiamoci, non che non riconosca il valore, ma non è uno di quei
pittori che andrei a cercare, che sento vicino. Venivo a Milano, e ad
ogni viaggio tornavo con un po’ di cultura, anche se io non ho cultura,
di nessun tipo. Si, direi proprio che è un pericolo che ho corso. Perché
non fa bene, io penso, essere così suscettibili alle influenze, a quello
che si scopre. E io per temperamento lo sono, sono vulnerabile alle
suggestioni, mi lasciavo influenzare. E non so se questo faccia molto
bene. Oggi ho deciso, no, meglio non vedere troppe mostre, sapere troppo:
ora ho la forza di rifiutarmi. Ma allora? Per un ragazzo le influenze
possono anche essere negative, se non disastrose. Meglio rimanere nel
proprio brodo, nella propria schiuma personale, senza badare ai padroni
della situazione culturale, quelli che contano, che hanno successo.”
E’ per questo che bisognerebbe evitare di usare nomi di confronto,
paralleli di paragone per un Vitali, artista forte e innocente. Certo i
riferimenti ci sono, espliciti soprattutto nel Il Mio museo quotidiano,
dove Vitali omaggia Caravaggio, Picasso, Ceruti, Bruegel, ma quando per
esempio guardiamo quadri come Il ragazzo del garage nel quale il giovane
Vitali ritrae il fratello Danilo alle prese con un nuovo lavoro
“tecnologico”, dalle mani enfie e sfatte di una gioventù che vuole
lavorare. Forse riusciamo a comprendere la sua vera natura di pittore
istintivo che “conosceva” senza sapere.
“Il primo libro d’ arte che ebbi in regalo, mi venne da una maestra della
scuola elementare. Ma io avevo ormai 25 anni. Mi ricordo: era un libro su
Caravaggio, ma non un vero volume d’immagini, era una storia romanzata,
una vita con delle illustrazioni in bianco e nero. Allora del resto non è
che di libri ne girassero molti, oggi sono diventati quasi un problema,
col peso di quintali che hanno. Allora ci si accontentava di poco. Io
devo tutta la mia “cultura”, se così posso dire, grazie ad un pittore
allora famoso, Alfio Graziani, avrà avuto quarant’anni, si, era del 1900,
io ne avevo diciassette, lui era molto apprezzato, anche da Sironi, gli
avevano affidato una parete alla Triennale nel ’33, ebbene era sfollato
sul lago, dopo che a Milano il suo studio era stato bombardato,
distruggendo molte opere e libri. Lui aveva qualche libro, nella sua casa
sul lago. Picasso l’ho scoperto molto tardi, così. Aveva anche un volume
sugli impressionisti, il primo che mi rivelò la loro esistenza. Ma oggi
non si può nemmeno immaginare che cosa fosse la conoscenza di allora, era
un libro con riproduzioni fotografiche che volevano essere a colori, ma
colorate a mano, come dalle suore. Quello fu il mio impressionismo.
Mancava la materia per una conoscenza vera, diretta. Certo, qualche
scappatella già la facevo a Milano, col trenino, e vedevo qualche mostra,
tutto, nel ’48 esposi qualche disegno all’Angelicum, ed ebbi i
complimenti da Carrà, che li trattò come qualcosa di importante…No, i
miei, no, mio padre e mia madre, che aveva una bottega di pesce, non
ostacolarono mai la mia natura, semmai erano preoccupati, ma non ci
furono resistenze, anzi, mi incoraggiavano, nei limiti delle possibilità
di famiglia, che erano davvero poche. Le difficoltà erano molte, ma
proprio per questioni di sopravvivenza, e fu grande il dolore di mio
padre quando non potè farmi accettare la borsa di studio a Brera, un vero
sacrificio. Ma non era possibile tenermi fuori di casa, vivere a Milano.
Ed è così che ho incominciato a lavorare per necessità, che sono rimasto
imbrigliato nella pittura su commessa, quella commerciale, per
ristoranti, magari dieci tele al giorno. Non potevo pensare nemmeno di
rimanere a carico dei miei, anche se allora non tiravo su che qualche mancetta, sottobanco. Quanto c’è voluto per mettere insieme qualche
ghello vero, concreto! Graziani dunque è stato in fondo il primo vero
maestro, io disegnavo già da tempo, ma lui mi ha dato i primi ragguagli
tecnici, come preparare una tela, per esempio, e forse è anche da lui che
ho assorbito quelle capacità che mi hanno permesso di legare la pittura
ad un discorso commerciale, di sopravvivenza. Non so nemmeno se
considerarlo un aspetto negativo. E’ andata così…”
La sanguigna carnagione che si sprigiona dai ritratti di Vitali (perché
comunque di ritratti sempre si tratta, anche ritratti di paesaggio)
presuppone la macerazione delle forme, anzi, la macellazione. Ma la
deformazione per Vitali è insita come nel destino delle cose, delle
carni. I volti sono già corrosi da una lebbra, che li disfa in smorfie e
funebre preghiere: e se ne va come una tenera fumatina di dopo-pranzo il
viso sghembo e vinaccioso del giovane Achille. Oppure, terremotato da una
risata, si disfa il conclave ebbro della Festa ai Roccoli, l’anatomia
dell’amico esangue, che si fregia appunto del titolo Risata. Mentre tutti
gli altri, enfi e catarrosi, sono già vanitas di una polvere che ha
ancora la vanità di fingersi carne, trippa, mandibola. E ancora carne è
del resto il titolo di un quadretto magnifico, perché l’intiera
produzione di Vitali è una meditazione sul come muore la carne. Allunga
il collo già tirato, come per entrare nella ‘fotografia’, la beccaccia
col muso di papera, che si fa Natura morta nel1947 .
Approfondire la conoscenza con questo artista per capire come mai, pur
non avendo mai lasciato il suo paese d’origine ed essendo pittore
autodidatta sia riuscito a trovare uno stile così personale ed
internazionale. Nei ritratti dei suoi compaesani è riuscito ad inserire
un sentimento che trascende qualsiasi regione, non si direbbe pittore
lombardo, la sua opera si potrebbe trovare in qualsiasi luogo, ovunque.
Forse, come sostiene anche lui, la sua fortuna è stata quella di non
poter accettare la borsa di studio per l’Accademia di Brera per
l’impossibilità economica della famiglia di mantenerlo a Milano riuscendo
così a rimanere puro. Magari se fosse andato a studiare a Milano non
avrebbe mantenuto intatto il suo spirito e si sarebbe fatto influenzare
dalla conoscenza di altri artisti e movimenti. Forse la sua fortuna è
stata proprio questa di riuscire a crescere autodidatta in un paese di
provincia. Chissà come sarebbe stata la sua storia se avesse potuto
andare a Milano a studiare. Forse adesso non avrebbe avuto questa
importanza. E se Testori lo avesse scoperto prima? E se non ci fosse
stato alcun Testori? Magari non avrebbe mantenuto la sua unicità, non
sarebbe riuscito a cogliere così profondamente nei suoi personaggi i
sentimenti che affiorano dalle sue opere. Ma chi lo può dire? La sua
favola è questa, artista lombardo internazionale.
ARNOLDI
La scuola serale di disegno, cesello e sbalzo, iniziata nel 1870, in
questi anni era diretta dal signor Giovanni Arnoldi, con grandissima
passione e con pochissimi mezzi. Le aule erano in piazza S. Giorgio,
nella casa Cantoni.
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