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Pittore Vitali G.

Personae

   

IL DUILIO
“Anche da vecchio, il Duilio aveva ancora la mania delle donne.
Nel suo negozio di mobili, in Cortiv, che era stretto e lunghissimo, distribuiva calze alle ragazze, una calza per volta, però, e dovevano farsela infilare. Ma aveva quattro colori di calze e non ne dava mai due eguali, così le ragazze tornavano a reclamare.
Aveva anche vari magazzini nelle contrade dove ogni tanto veniva chiuso dentro, “in compagnia”, da quelli che, di notte, si divertivano a curare i suoi giri e a fargli scherzi pesanti.

Alla gente, soprattutto alle donne, si avvicinava camminando sul fianco, come i galli: era un “marcincòsta”.

S’el Signor al tegnièss cunt d’i pecàa de la bragheta
El starèss su deperlù a sonàs la trombèta
(Se il Signore tenesse conto dei peccati della “braghetta”
starebbe sa solo a suonare la trombetta)


Dove ci porta Vitali coi suoi ritratti? Tutta gente di Bellano che lo storico-classificatore registra con nome e cognome, per tramandarli alla posterità.
Tipici personaggi di paese, buontemponi, pescatori, ciascuno col suo tic, le sue battute che fanno il giro del paese e sopravvivono nella memoria collettiva. Non sono visi, ma volti, luoghi simbolici che nulla hanno a che vedere con la fedeltà alle forme del soggetto; ci troviamo di fronte a qualcosa di diverso rispetto alla realtà: il personaggio pur essendo protagonista nella sua quotidianità, grazie all’artista diventa più grande, trovando una nuova identità. Sublimando l’uomo secondo la propria sensibilità etica e religiosa attraverso il segno, un segno che ha particolare importanza come mezzo espressivo: lo troviamo incerto, accennato o addirittura a macchie scure nelle commoventi rappresentazioni dei vecchi, netto, essenziale ed acceso nella vitalità ed esuberanza dei bambini, premuto e spezzato per rendere la vivacità degli animali vivi e minuzioso nell’esporre le carni immacolate. Un segno aggrovigliato, confuso, che riempie lo spazio, invece, per le rappresentazioni di massa, dalle feste di paese, al mercato del pesce, dalle processioni ai villeggianti estivi.
Il suo totale rispetto dell’uomo lo induce a volte a tratti ironici o satirici, con un riporto culturale che pesca fin oltre il seicento e non cede mai alle leziosità ornamentali.
Un volto non s’identifica mai con un viso scoperto, ma, al contrario coi suoi segreti nascosti, sono spettri e fantasmi di una realtà, ossia maschere del quotidiano, come in lungo cerimoniale in cui tutto diviene simbolico, e nel tempo mantiene la sua magia, come avviene in Processione infinita, l’olio del 1970. In quest’opera si percepiscono anche tutti gli altri risvolti di un’unica storia. Dai protagonisti di Cena benefica all’Hotel Meridiana all’Ingordo, a Ruspanti, è, infatti, una sottile carrellata di maschere dai tratti immutabili, in cui si attuano i riti sociali della collettività, incarnandosi di continuo in altro. In questo scambio simbolico appaiono i particolari privilegiati, sui quali Vitali si sofferma, come gli occhi e la bocca, soprattutto.
Spesso sono bocche che si allargano a dismisura ad occupare quasi tutto il volto, come in Ingordo. Ma anche i nasi, le gote e i menti caratterizzano queste nuove maschere, collocate in spazi sempre più chiusi ed abbassati. Sono particolari inquietanti che divorano e che rimandano all’idea di morte. Come in Ruspanti, dove delle due donne si evidenziano le mani, nervose e scheletriche, proprie di queste persone rappresentate. Ma guardiamo anche le altre mani dei personaggi di Vitali: sono sempre mani goffe, artigiane, che non sanno dove posarsi, salvo le mani-artiglio politiche del Sindaco Balbiani, schiacciato dal decoro della bandiera, gli occhi bolliti dietro gli occhialini da preside, come in un meraviglioso esempio di Nuova Oggettività “impadanata”, le altre mani sfarfallano imbarazzate: la manina peccaminosa del Comunicando, che trabocca fin sulla cornice, oppure le zampe prensili ed estenuate della vecchina dei gatti.
Ma ecco i ritratti degli amici importanti, dei “cittadini” di cui è facile misurare la fisionomia. Per esempio il gallerista Bellinzona, con il marchio ritagliato della sua galleria, che gli sostituisce la bocca fotografando con amorevole ironia la sua esuberanza; ma poi soprattutto Testori, fermato magistralmente nella sua riconoscibile espressione di polemista affettuoso: chiuso dentro il suo interiore concerto di corruccio e sfida, in una teatrale risata ensoriana che si leva come una nebbia sonora dietro di lui. Oppure l’altro Testori, torero di se stesso, infallibilmente incorniciato dal sipario di una sciarpa rosso sangue.
Volti in cui l’ironia comico grottesca si mescolano indissolubilmente con la tragedia nascosta che ciascuno porta dentro di sé. I mille volti di un’umanità varia quanto viva; poesia della terra lombarda dalla quale emerge la solida moralità tipica di questa regione, fatta di realismo e ironia.
E’ da queste atmosfere che nasce il senso del grottesco. Ben lontano dall’essere una presa in giro, esso si coniuga con il realismo di quest’autore, che tutto mescola e confonde.
Nell’opera di Vitali, infatti, c’è un non so che di antidogmatico, e antisistemico, dove il disordine è esaltato attraverso l’uso di metafore e costanti metamorfosi. Ma prevale, pur sempre, la rigorosità della rappresentazione. E’ come se Vitali pensasse all’arte in dialetto. Solo in questo modo egli riesce, infatti, a cogliere nei suoi soggetti il fondo della natura, il terzo grande centro di quest’artista. E’ qui che risiedono gli istinti, i sensi e le passioni, in definitiva, qui hanno la loro dimora, la varietà e, nel contempo, la specificità degli individui. Verrà un tempo che sarà avvertita la necessità di ripensare alla storia dell’arte e della letteratura, seguendo i piani trasversali del dialetto e del regionalismo, che non sono certo sinonimo di provincialismo o di recupero del tempo che non è più.
E’ nel dialetto che si scorge, infatti, la secolare tradizione europea, alla quale Vitali si ricollega, che troppo spesso è stata trascurata in nome di un pronunciato e freddo intellettualismo accademico.
Nella sua pittura e nella sua grafica si scorge quel tanto di follia, che è propria del genere comico e grottesco, che spesso è sconfinato nella caricatura. In lui non ci sono quindi riferimenti a mondi ideali elevati, semmai alla poetica del matto. E’ questa la poetica comune anche al carnevale che smitizza ogni realtà, in modo irriverente. Essa rimanda al disagio per il tempo presente, in favore di un nuovo mondo che non può, né deve, esistere nella realtà di tutti i giorni. Ecco quindi il carnevale macabro, abitato da spettri danzanti e scanzonati, nei quali Vitali ha trasformato i suoi concittadini. Sono presenze che attraggono, ma irrimediabilmente tengono lontani. Pietà e derisione, sentimento e sgomento, dolcezza e repulsione sono le oscillazioni in cui si collocano i personaggi di questa danza macabra tutta moderna, che sottolinea, come è proprio di questo genere artistico, il senso della vita, visto tuttavia dal basso, dagli inferi, o semplicemente da un sottoscala. Per questi motivi, i corpi dei personaggi di Vitali recano impressi i segni dei fenomeni naturali, come in La polenta l’olio del 1991, o del satanico come in Marco Cariboni, quasi poeta di una decina d’anni prima. Nelle deformazioni dei loro volti si scorge qualcosa di demoniaco, che provoca emozione, tra lingue e fuochi di colore.
Il medesimo mondo del carnevale e dell’opulenza si ritrova anche negli oggetti. Bistecche deposte nel piatto, nature morte, avanzi di una tavola imbandita, dove ogni personaggio assume un atteggiamento statico, che si può ritrovare anche nella serie di dipinti, incisioni e disegni con il tema della maschera. Divertimento, sensualità e irriverenza così si mescolano nuovamente, in un turbinio di forme che sempre mutano, creando maschere sbigottite, ma ebbre di vigore.
Vitali non sta lì a carpire lentamente le forme, a procedere per sovrapposizioni pazienti ed elaborate. Una volta capito il personaggio, delineati il suo carattere e la sua figura, l’artista ne trascrive, incidendoli, i segni peculiari impressi dalla consapevole “demenza del vivere”, sia nel fiorire eccitante della bellezza, come nel deformarsi inesorabile della vecchiaia attraverso la fatica e i travagli del vivere. Sottolinea però alcune situazioni, le cene benefiche, le meschine avidità della piccola gente, o l’infantile terrore della morte.
Non di rado l’artista modifica le iniziali situazioni storiche, da cui trae spunto, e fa nascere qualcosa di diverso. Una metamorfosi in cui alcuni personaggi quasi si mascherano sotto altre sembianze, e così raggiungono una sorta di liberazione. Ma chi si libera? Comunque l’artista.
I ritratti sembrano voler emergere quasi con uno sforzo doloroso dalla materialità del quadro, dove non c’è niente altro che il ritratto stesso, salvo rarissime eccezioni. Il segno, appagante anche sotto il profilo estetico, è dedicato interamente all’uomo.

IL DOTTOR PIROLA
Il dottor Pirola, farmacista, era un personaggio che incuteva un certo timore anche a causa della sua figura alta e ossuta e della grande barba bianca: era sempre vestito di nero, mi pare. Era autoritario e poco maneggevole, specialmente nella sua Farmacia dava indicazioni a cui non ammetteva repliche, ed era molto duro, anche coi soldi.
Secondo l’uso del tempo, preparava citrati e sciroppi, boli e polverine: si arrabbiava molto se qualcuno tornava dicendo che non aveva avuto giovamento dalla cura e rispondeva che certamente la colpa era dell’ammalato che non aveva seguito bene le sue indicazioni: forse aveva lasciato aperto il flacone, che invece andava tenuto chiuso; o forse l’aveva tenuto chiuso, mentre avrebbe dovuto lasciarlo aperto; aveva sempre ragione lui, insomma.
Era socialista e prima del Fascismo aveva organizzato molte attività in paese, come corsi d’istruzione varia, biblioteca, conferenze ecc. Col Fascismo ha avuto molte grane, ma non ha mai perso il suo spirito. In paese dicevano che era “framassone”.
Mi hanno raccontato che, quando stava per morire, ha voluto alzarsi in piedi, per ricevere la morte. Lui che tutta la vita l’aveva combattuta, la conosceva bene e le gridava di farsi avanti. “Avanti, Negra”, diceva e sembrava volesse avviare una battaglia con lei, prima di cedere le armi.