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Il lavoroL’uomo della Valvarrone è un ottimo lavoratore che si adatta a fare tutti i lavori; “Sono difatti svegliatissimi d’ingegno e assai arguti. L’indole è franca, ospitaliera e buona. L’aria, generalmente sottile, punge gli ingegni e li dispone alle speculazioni richieste dal bisogno, mentre comunica alla macchina maggior grado di robustezza”. L’uomo doveva provvedere al rifornimento della legna, falciava i prati (se era emigrato all’estero tornava al paese al tempo della fienagione), cacciava e pescava per procacciare il cibo alla famiglia, costruiva le case e le riattava (non esistevano muratori, ognuno faceva per conto proprio i propri lavori), costruivano i loro mobili, intagliavano nel tiglio i zocoi (gli zoccoli) e i zocolot (gli zoccoli chiusi sul davanti), preparavano i gerli (le gerle) e le berle (gerle a maglie larghe), i cavagn (cestini), le stoviglie, inventavano ingegnosi congegni per la catturare degli animali: i archìtt (gli archetti), i lasc (i lacci), i trapül (le trappole), convinti che a laurà la vita l’è dura, ma la pagnota l’è sicura (a lavorare la vita è dura, ma il pane è assicurato) e che un meste per vèss ben impara el va ruba (un mestiere per essere ben imparato deve essere rubato). Il contributo della donnaCome è stato detto nei capitoli precedenti,la donna aveva nella famiglia un ruolo di primaria importanza; molto spesso era la responsabile dell’andamento della famiglia e sui sò spall (sulle sue spalle) gravava il peso di tutti i lavori essendo l’uomo all’estero per tutto il periodo estivo. Doveva provvedere ad accudire al bestiame, ogni famiglia aveva due o tre mucche, un maiale, delle pecore, delle capre e del pollame; doveva falciare e seguire i lavori agricoli dalla semina al raccolto; doveva provvedere a fornire a tutta la famiglia gli indumenti necessari. La sera nella filèra (stalla) le donne, attorno alla lümm (lampada ad olio) filavano la lana e la canapa che poi tessevano , su qualche telaio, che i più agiati del paese mettevano a disposizione, per poi trarre gli abiti, i cuvert (le coperte), la tele de cà (stoffa greggia). Confezionavano anche le zible (ciabatte) e i pedü (scarpe di pezza); con degli stracci preparavano la soletta ben trapuntata, più era trapuntata, più era solida e adatta a camminare sulla neve e sul ghiacco senza scivolare, alla soletta veniva unito, con punti fittissimi fatti con lo spago, il soprapiede in mezzalana (ordito di canapa e trama di lana) o in velluto. Ne confezionavano una gran quantità, servivano per tutti, uomini, donne e bambini. Erano abilissime nel ricamare e lavorare all’uncinetto, i stampà (i vestiti delle donne) erano ravvivati dal scusà (grembiule) ricamato, dal panèt dol col (fascia che veniva messa sopra la camicia e sotto il gilet) realizzato all’uncinetto e poi ricamato e da un panèt dal co (foulard) scuro con dei bellissmi ricami. Le ragazze giovani oggi non si dedicano più alla vita contadina, lavorano nelle fabbriche e non trovano più il tempo per imparare a fare questi bellissimi lavori, si sente spesso dire che: I tusann del dì d’incö i è gna bun de fà ‘n ugiöLe ragazze di oggi non sono nemmeno capaci di fare un occhielloLe donne con i gerli (le gerla) trasportavano a valle il carbone e la legna; quando si costruiva una casa erano le donne che scendevano al fiume a prendere i sassi e la sabbia; scendevano anche a Dervio a scaricare i cömbai (barconi)‘ di sabbia e sassi per guadagnare qualche soldo in più. In casa coltivavano anche i bachi da seta, sulle lecére (lettière) poste una sopra l’altra mettevano el brüch (erica bassa che cresce sotto i castani) e sopra a questo i bachi, quando i galèt (le gallette) erano pronti li portavano nei canatoi; a Sueglio esisteva un canatoio che fu chiuso nel 1910.
Il gioco e le prime attività dei bambiniPochi erano i giocattoli a disposizione dei bambini, molta era invece l’inventiva; i prati, la neve davano l’occasione per molti giochi di gruppo. Gh’era minga tant de andà a giugà
Non si poteva molto andare a giocareI genitori affidavano ai bambini piccoli lavori che li tenevano occupati buona parte della giornata. I bambini di tutte le generazioni hanno giocato e continuano a giocare a te ghe lé (rincorrersi), a topoli (nascondino); i luoghi davano libero sfogo alla fantasia nel ricercare angolini lontani per nascondersi e fà diventà mat (far impazzire) chi era destinato alla ricerca; una sola partita di nascondino poteva durare tutta la serata. Si giocava molto alle biglie, curioso è come se le procuravano: si prendeva un mattone o un sasso tenero e lo si strofinava sul muro di una casa, la polvere che scendeva veniva bagnata, impastata e si dava la forma tondeggiante alle originali biglie. I giand de persech (ghiande di pesca) sostituivano le biglie, si tiravano contro il muro, vinceva chi tirava püsè visin (più vicino); anche i pennini usati per la penna da scrivere erano oggetto di gioco giugà a penin (giocare a pennini), questi venivano tirati contro il muro come le ghiande. E come dice il proverbio: el giöc per vèss bell el g’ha de vèss curt
il gioco per essere bello deve essere cortoera molto facile che si finisse con qualche lite fra gareggianti, ma non si poteva andare a casa a dire alla mamma: I m’ha picâ (mi hanno picchiato) perchè avrebbe risposto: Un sulda de per lü el pö minga fa la gueraUn soldato da solo non può fare la guerraNon mancavano el tirasass (il tirasassi), ol s’ciopet (il fuciletto) fatto con un legno di sambuco senza midollo, ol pirlo (la trottola). Le narrazioni a sfondo moralePer dare ai bambini gli insegnamenti morali e per tenerli saldi, si solevano raccontare storie, cantare canzoni con protagonisti la Madonna, Gesù, i Santi e le persone normali; ogni storia finiva con un ammonimento sul modo di comportarsi. Di queste storie se ne raccontavano parecchie, i nonni le raccontavano ai bambini, il Sacerdote ai suoi fedeli; avevano un contenuto espressivo e qualche volta violento per poter fare presa sugli animi delle persone. Ora non si raccontano più, se richiesto le persone anziane le ricordano ancora, i giovani non le hanno mai sentite. Una delle tante storie raccontate era la seguente: Una coppia di giovani sposi avevano generato molti figli ma erano morti tutti in tenera età, dei tanti ne era rimasto uno, un certo Giovanni, scioperato e cattivo che si divertiva a far dispetti e cattiverie alla gente. I genitori, dispiaciuti di avere un figlio del genere, ne adottarono uno che ben compensò i desideri dei genitori; crebbe molto educato ed imparò l’arte del calzolaio. Successe che durante un venerdì santo, nel corso di una processione, il Crocefisso della confraternita del Santissimo Sacramento cadde e si ruppe, bisognava portarlo a riva per farlo riparare. Giovanni si offerse di portarlo e quando giunse a mezza strada nei pressi di un dirupo si fermò e disse al Crocefisso: “Bada, o Cristo, che se mentre sarai laggiù non farai succedere niente di male a mio padre, quando tornerò a riprenderti ti butterò da questo precipizio”. Passarono dei giorni senza che nulla accadesse; quando Giovanni, dopo aver ripreso il Crocefisso, ripercorse la strada, nei pressi del dirupo cadde e mentre il Crocefisso restava sul sentiero egli ruzzolò sul fondo del burrone. Ritrovato, restò tra la vita e la morte per parecchi giorni, ma alla fine si salvò; le sue gambe non potevano però più reggerlo e dovette sempre servirsi delle stampelle. Giovanni, memore della dura lezione, divenne buono, imparò dal fratellastro il mestiere del calzolaio e raccontava ai bambini l’avventura che gli era capitata e insegnava loro a rispettare e ad amare i propri genitori.
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