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Semplici alimentiI cibi erano alquanto scarsi, si mangiava attorno al camino con la scüdele (tazzina) di legno appoggiata sulle ginocchia o direttamente dalla marmitta affrettandosi a mangiare perchè: un sac voj el stà minga in pe (un sacco vuoto non sta in piedi). A mangiare gli gnocchi si doveva operare così: ün in buca, ün sula furchèta ün a téret de mirà in döe andà a töl (uno in bocca, uno sulla forchetta, uno dovevi mirare dove andarlo a prendere). Il cibo era talmente poco che solo chi era molto veloce nel procurarselo risusciva a sfamarsi). Il pane veniva confezionato in casa ogni due o tre settimane con farina di fràina (grano saraceno) mista a segale e portato a cuocere nei pochi forni del paese. Di carne se ne mangiava assai poca, se andava a pich (si ammazzava) qualche capra la carne veniva tagliata a pezzi e infilzata in bastoni e poi, o affumicata vicino al camino, o congelata all’aria aperta davanti a casa. L’olio era ricavato dai gherigli delle noci, macinati dai mulini mossi dalle acque dei torrenti, o dalle bacche di faggio dalle quali si ricavava un olio leggero ma profumato; il sale era prezioso per le tassazioni cui era sottoposto e veniva usato con molta parsimonia. Era consuetudine che le famiglia più agiate, quando moriva un loro congiunto, dessero ai partecipanti al funerale, all’uscita del cimitero, una tazzina di sale; ogni volta che si usava di quel sale (che durava molto tempo dato l’alto prezzo) si doveva recitare una preghiera per il defunto. L’aceto era sostituito dall’agra (liquido acidulo derivante dalla lavorazione del latte); si produceva pochissimo vino, data l’titleitudine, si faceva però il sidro con le mele. A colazione si mangiava la minestra della sera precedente, riscaldata, o zuppa di acqua e cipolle con pane o polenta; a mezzogiorno, se si era nei campi a lavorare, si portava ol marendel (il tascapane) in cui era riposta della polenta con del formaggio magro oppure del pane nero con noci e fichi; questi ultimi venivano acquistati alla fiera di Dervio. Classico era per gli ammalati il pan cotto, pane a pezzetti cotto nell’acqua e insaporito con un po’ di formaggio gratuggiato. La polenta veniva consumata anche fredda, sempre fredda, tagliata a fette, veniva usata per la preparazione del fugascìn: fra due fette di polenta si metteva del formaggio, il tutto veniva poi fatto abbrustolire; la mascarpe (ricotta) oltre che fresca veniva consumata vègia (seccata), la si mangiava anche rustide (arrostita) grattuggiata e fatta rosolare con un po’ di burro; il bagnarèl era invece la mascarpe rustìde alla quale, durante la cottura, era stata aggiunta un po’ di acqua; si intingeva con la polenta. Un buon piatto era costituito dai granèi: la farina gialla mischiata a quella bianca veniva buttata nel lac del penac (latte rimasto dopo la lavorazione del burro) bollente e un po’ salato; buona era anche la minestra di latte fatta con riso bollito in acqua con aggiunta di latte. Le castagne si mangiavano in molti modi, le più gustose erano però i bürol (le caldarroste); si prendevano le castagne appassite ma con la scorza intera e poste sul fuoco nella padele dei bür (padella per le caldarroste), si facevano saltare per non farle bruciare, quando la buccia era diventata bruciacchiata si mettevano delle foglie di verza sulla padella per trattenere il vapore e rendere le castagne morbide, veniva mantenuta la brace per il calore. In primavera si raccoglievano nei prati i rampunc (raperonzoli) che venivano conditi in insalata e consumati con uova sode. Nei giorni di festa si facevano dei cibi più raffinati come la polenta taragna, i paradei (tortelli), i ravioli, i malfacc (gli gnocchi verdi di farina mista ad erbe), la polenta con gli uccelli. La miascia era una torta caratteristica che si continua ancor oggi a fare: si faceva con lac de penagia (latte rimasto dopo la lavorazione del burro), farina gialla, zucchero; si metteva il composto in una terrina bassa con coperchio di ferro che veniva posta sulla brace, per far cuocere uniformemente la torta si faceva del fuoco sul coperchio con delle pannocchie senza il granoturco. Il caffè era un lusso, era però sostituito dall’orzo, cereale coltivato in Valvarrone; veniva fatto tostare sul fuoco con un particolare strumento a forma di forbici ma con due semisfere poste all’estremità (nelle quali veniva messo l’orzo) apribili. Nei periodi di carestia venivano tostate in luogo dell’orzo i giand de rugula (le ghiande di rovere).
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