Elena D’Ambrosio.
Più di un secolo fa, il 24 giugno 1883, si consumò una delle pagine
più tragiche e mai dimenticate della storia di Dervio. Durante una rappresentazione
di marionette in un teatrino improvvisato in uno “stallazzo”, scoppiò
un terribile incendio in cui perirono 51 persone. Ricostruiamo questa
drammatica vicenda - che gettò nel lutto un’intera comunità e colpì
profondamente l’opinione pubblica - attraverso la cronaca del tempo.
Dervio era all’epoca un piccolo ma operoso paesino, diviso nelle frazioni
di Villa, a cavallo della strada nazionale Lecco-Colico, e Borgo, con
il gruppo di case in riva al lago. Gli abitanti - 940 anime - vivevano
soprattutto di agricoltura. Molte ragazze lavoravano nelle filande della
zona.
Tanta
fatica dall’alba al tramonto e nessun divertimento, fuorché in occasione
delle tradizionali sagre e fiere annuali attese da tutti. Così l’arrivo
in paese di una piccola compagnia marionettistica ambulante aveva suscitato
un gran fermento soprattutto tra i più giovani, «che non sapevano staccare
gli occhi» dal manifesto teatrale affisso in paese, in cui si annunciava
la rappresentazione del «Martirio di S. Filomena». La sera prima della
disgrazia lo spettacolo fu allestito in un’osteria, ma il buon afflusso
di pubblico aveva spinto il burattinaio milanese Alessandro Sartirana
a spostarlo l’indomani, domenica, festa di S. Giovanni, in un «un rustico
stanzone» al primo piano di una cascina di fronte all’Osteria del Sollievo,
in via Nazionale, (oggi via Diaz) di cui era proprietario lo stesso
gestore dell’Osteria. Nel locale, largo poco meno di sei metri e lungo
dieci, con cinque finestre senza imposte (tre dalla parte della strada,
verso il “Sollievo”) e una porta aperta soltanto a metà che dava direttamente
su un scala esterna, il palcoscenico era stato montato addirittura sopra
un mucchio di fieno coperto da uno strato di brugo, altamente infiammabili.
Lo “Stallazzo” quella tragica sera traboccava di pubblico: circa ottanta
persone, in maggioranza giovani, strette in uno spazio veramente angusto.
Lo spettacolo venne seguito attentamente dal folto pubblico. Tutto filò
liscio fin quasi alla fine. Al punto culminante della rappresentazione
- l’assunzione in cielo della santa - il Sartirana incaricò la moglie
di accendere i fuochi d’artificio per rendere più suggestiva la scena;
«il seme della catastrofe era così gettato». Una scintilla cadde, infatti,
tra le fessure del palco sul fieno che subito iniziò ad ardere. Gli
spettatori al momento non si accorsero di nulla, scambiando quel crepitare
per lo scoppiettio dei fuochi d’artificio. Il Sartirana dopo qualche
momento di esitazione urlò: «Al fuoco, si salvi chi può». A quel grido
tutti «si levarono come una sola persona» e presi dal panico si precipitarono
verso la porta semiaperta, dietro la quale faceva oltretutto da ostacolo
un tavolino servito all’incasso dei biglietti, cui era addetta la sorella
del Sartirana. Sgusciati a malapena i primi, l’impeto di quella valanga
umana e l’aprirsi in dentro della porta fece improvvisamente chiudere
l’unico battente aperto. Fu un pigia pigia bestiale; in pochissimo spazio
si accalcarono una cinquantina di persone terrorizzate che cercavano
invano di forzare la porta. Molti morirono rapidamente, asfissiati dal
fumo denso e soffocante del fieno, delle tele, dei legnami; «le fiamme
inferocirono – così riportarono i giornali - quasi unicamente contro
cadaveri». Ci fu chi si salvò saltando dalle finestre titlee cinque metri
sulla strada principale. In un attimo tutto il paese si precipitò allo
“Stallazzo”. Alcuni bambini gettati dalle finestre dalle mani dei genitori,
finirono fra le braccia della gente accorsa. I primi ad occuparsi dei
soccorsi furono una guardia doganale e il barcaiolo Arrigoni di Bellano.
Quest’ultimo salvò parecchie persone sempre dalla parte delle finestre,
servendosi di una scala. In questa maniera scampò alla morte il Sartirana,
orribilmente malconcio (la moglie, invece, morì). Luigi Orio, che era
presente alla recita ed era fuggito appena in tempo, tornò sul luogo
della sciagura. Grazie a lui almeno cinque compaesani ebbero salva la
vita. Il martellare delle campane a stormo verso le 11 chiamò altra
gente da Bellano e Corenno. Intanto erano giunti il sindaco, Antonio
Porta, e i carabinieri col pretore. Le colonne di fuoco, «le grida dei
soffocati, l’urlo dei bruciati mettevano i brividi. Era un chiamarsi
per nome, un invocare la Provvidenza…poi più nulla. L’ecatombe era compiuta».
In strada la disperazione era indescrivibile. Madri che accorrevano
urlando, ragazze che cercavano il fratello, il genitore, il fidanzato.
Mentre un gruppo di uomini tentava di far funzionare la pompa idraulica,
tanti volenterosi vuotavano secchi d’acqua sull’immane braciere da cui
cominciava levarsi un lezzo nauseabondo di carni abbrustolite. La cascina
era un’immensa fiamma. In pochi istanti il tetto crollò. L’incendio
fu spento verso le due. Solo allora si riuscì a sfondare la porta barricata
di cadaveri che giacevano l’uno sopra l’altro. «A districare quella
spaventosa matassa ci volle un coraggio e una abnegazione sovrumana».
Si trovò qualcuno ancora vivo ma in condizioni veramente pietose. Al
mattino iniziò la conta delle vittime, tutte della frazione di Villa,
che furono allineate in un campo adiacente al cascinale, dove vi era
il gioco delle bocce dell’attigua Osteria del Sollievo: 47 vite spezzate,
una lunga lista di nomi, intere famiglie distrutte. Evangelista Ravellia,
impiegato postale, aveva perso le tre figlie, Eufrasia, Angiola e Virginia
(filatrici) e il figlio Carlo. Pietro Gottardi perse la moglie, Angela
Raimondi, una figlia, Pierina, di soli 8 anni e una nipote, Maria Cereda,
venuta il giorno prima da Osteno e prossima al matrimonio.
Giovanni
Battista Carrera, fucinista del mandellese ma residente a Dervio, aveva
estratto dal mucchio dei cadaveri la moglie Luigia Ganzinelli, incinta
di quattro mesi, un figlio di un anno e una figlia di sette anni. Fu
instancabile nell’opera di soccorso, come del resto tanti coraggiosi
derviesi. Raccontava a tutti la sua disgrazia «ridendo come un ebete».
Il sarto Giovanni Cattaneo perì con la moglie, Luigia Locatelli, lasciando
un’unica figlia. Rosa Venini (22 anni) fu trovata morta stringendo fortemente
fra le braccia il fratellino Anacleto di 5 anni. Corinna Andreani (6
anni) fu schiacciata in modo orrendo dalla ressa umana, mentre Virginio
Vitali (“Gino”), «un bel giovanotto» di 24 anni, riuscì a mettersi in
salvo ma tornò subito indietro per cercare la fidanzata e…non comparve
più. Fra i morti anche il calzolaio Carlo Dettamanti (47 anni) che quindici
giorni prima aveva ricevuto una medaglia al valor civile per aver salvato
un bimbo caduto nel lago e Ottorina Andreani l’unica figlia di Giuseppe
Andreani, proprietario del “Sollievo”. L’opera di riconoscimento delle
vittime fu quanto mai penosa. I corpi, tranne due o tre, non conservavano
più fattezze umane. I parenti si aggiravano tra i cadaveri alla ricerca
di un segno, un brandello di veste, qualche oggetto personale che potesse
permettere loro di identificare i propri cari. «Molti erano in stato
di esaltazione spinta agli ultimi limiti dal vino che pietosamente era
stato loro offerto lungo la notte dai conoscenti preoccupati di dare
una diversione a quegli animi straziati». Al cimitero del paese intanto
c’era chi si occupava di far posto a quei 47 morti… in un solo giorno
e «in un paesello dove tanti non ne morivano che in un decennio». Il
funerale si svolse quello stesso giorno, alle otto di sera. Le bare,
deposte in 5 grandi carri, erano coperte di tele nere e tutte adorne
di corone di fiori. Sull’ultimo carro ne spiccava una, dono dei bellanesi.
Moltissime persone d’ogni ceto arrivarono col piroscafo delle sette
da Bellano, da molti paeselli vicini e dalla sponda opposta del lago.
«A memoria d’uomo non si vide mai un funerale così imponente». Nei giorni
seguenti le cure furono tutte rivolte agli undici feriti, assistiti
amorevolmente dai familiari e dal vecchio medico condotto del paese
Innocente Bonalini che, coadiuvato da un assistente dell’Ospedale S.
Anna, fece il possibile per strappare alla morte quei poveretti. Per
quattro di loro non ci fu nulla da fare. Giuseppe Dettamanti (12 anni),
Alessio Balbiani, assessore comunale, e Maddalena Tagliaferri (che aveva
salvato il figlio gettandolo dalla finestra nelle braccia di chi stava
sotto) morirono il 26 giugno. Dopo una lunga agonia durata più di un
mese e tra atroci sofferenze anche Domitilla Viglienghi (15 anni) cessò
di vivere. Come accade spesso in simili circostanze si mise subito in
moto la macchina della solidarietà per aiutare le famiglie colpite.
Tutti i giornali della provincia aprirono sottoscrizioni. Raccolte di
denaro vennero fatte un po’ ovunque. Le offerte giunsero da ogni parte
d’Italia e anche da molti connazionali residenti all’estero (America,
Inghilterra, Francia, Spagna). A dicembre, invece, si apri il processo
contro il marionettista, responsabile involontario della tragedia, imputato
per aver dato lo spettacolo senza la prescritta licenza e per aver imprudentemente
acceso fuochi d’artificio, e l’ex sindaco di Dervio Antonio Porta (
subito sospeso dalla carica) che nulla fece per impedire lo svolgimento
dello spettacolo. Quest’ultimo fu inizialmente assolto (condannato poi
in appello a 50 lire di ammenda) mentre il Sartirana fu condannato al
pagamento di un’ammenda di 30 lire. Un anno dopo la sciagura, in ricordo
di quella tragica notte di San Giovanni, la cittadinanza volle erigere
un cippo in un angolo del Cimitero. I nomi delle 51 vittime sono impresse
nel marmo e forse ancora nel cuore di molti derviesi.
Anche dopo anni la vicenda suscitò velenose polemiche
e si ricorda una poesia, di autore anonimo, che esattamente l'ultimo
giorno del secolo 1800, fu distribuita con contenuti molto pesanti su
molti Derviesi e sopratutto contro l'Amministrazione a suo dire colpevole
di questa disgrazia e di tante altre mancanze.
La Poesia
in dialetto è riportata integralmente con accanto la sua forma in lingua...
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